Engagement? Una responsabilità dell’HR, non dei lavoratori
Engagement è termine usato spesso a sproposito, quando non addirittura in maniera paradossalmente distorta. Sgombriamo il campo da uno spiacevole fraintendimento: l’engagement è il risultato di come una azienda sceglie i propri collaboratori e del modo in cui costruisce il rapporto con loro.
Con engagement dovremmo intendere infatti il coinvolgimento, l’attaccamento emotivo del lavoratore nei confronti dell’organizzazioni per cui opera. È un sentimento che si genera attraverso le specifiche esperienze che vengono vissute dal lavoratore sia nelle fasi di avvicinamento all’azienda, sia in quelle di primo inserimento e di evoluzione di carriera. Un buon livello di engagement è indicativo di una azienda sana e produttiva. Un basso livello indica invece una potenziale criticità a livello di HR o di people management.
Certo non esiste un’unica soluzione all’esigenza aziendale di promuovere un corretto e proattivo senso di appartenenza. Un modello unico davvero non esiste. Le aziende possono sviluppare il coinvolgimento dei dipendenti in modi variegati, anche in considerazione a trend sociali, demografici e valoriali tipicamente locali.
Engagement: analisi del contesto e prospettive strategiche
In generale accomuna il fatto di avere una politica delle risorse umane che favorisca un elevato coinvolgimento e che promuova un "accordo vantaggioso per tutti". Bisogna essere onesti: in una organizzazione le persone non hanno uguali vantaggi e prospettive. Il ruolo, l’età, il periodo di inserimento, il trend economico hanno pesantissimi effetti sulle reali possibilità di crescita e guadagno. Ciò però non esclude che si possano favorire soluzioni win-win in grado di evitare lo sviluppo di forme perniciose di conflitto categoriale.
Non è facile ma una analisi ben fatta della comunità organizzativa presente, correlata alle prospettive strategiche di sviluppo del business, può fornire molti spunti concreti. Certo, è impegnativo e si tratta di andar ben oltre alla semplice corretta esecuzioni di una serie di routine HR (dalla gestione paghe al monitoraggio delle performance). Non farlo esporrebbe però un rischio gravissimo: avere dipendenti che disinvestono.
Cause del calo di coinvolgimento
Molte sono le forme di disinvestimento, sia energetiche che emotive. La progressione è però piuttosto canonica.
Prima, emerge la disillusione verso le prospettive aziendali, un sentimento che porta ad allontanarsi emotivamente dall’azienda e a concentrarsi sulla concretezza del lavoro.
Poi, subentra un senso di frustrazione circa le pratiche lavorative e una riduzione delle tolleranze verso le piccole irrazionalità procedurali che qualsiasi organizzazione presenta.
Infine, giunge un vero e proprio esaurimento professionale, basato sull’auto-centratura. A questo livello si osserva spesso il limitarsi ad adempiere ai propri obblighi formali e nient'altro, in un atteggiamento che è tipico delle forme di burn out.
Questo disimpegno può anche portare a maggiori ritardi, ad essere assenti più spesso o ad attuare atteggiamenti inadeguati nei confronti del management, dei colleghi, dei clienti. Giunti a questa condizione molti lavoratori, soprattutto quando il mercato del lavoro è stagnante, si concentrano sul mantenimento del posto di lavoro e sulla ricerca di soddisfazioni nell’ambito dell’extra lavoro.
Altri, invece, cercano di uscire da questa situazione sgradevole andandosene verso una nuova azienda. In ogni caso si tratta di una situazione di patologia organizzativa: nella prima, abbiamo una evidente perdita di performance; nella seconda, una potenziale perdita di know-how, relazioni chiave e, spesso, immagine aziendale.
Come sviluppare il coinvolgimento dei dipendenti in azienda
Quali sono allora le leve del coinvolgimento? Non sono molte e sono note da tempo: si tratta di creare delle politiche di Talent Management consapevoli e davvero orientate a garantire all’azienda una comunità professionale ingaggiata e performante.
Attenzione però: la nozione di talento è psicosociale, ossia in parte razionale ed in parte emotiva, relativa ad un determinato contesto e periodo storico. Il Talent Management cerca infatti di rispondere ad una duplice esigenza di tipo sociotecnico: l’attesa dei lavoratori di un ambiente produttivo che sia inclusivo e non totalizzante e la spinta direzionale costantemente orientata a migliorare le performance aziendali di breve periodo.
Certo, il talento è inseparabile dagli individui e dai gruppi di lavoro. In altri termini, una azienda non può trasformare il talento dei lavoratori in performance senza agire concretamente, sia a livello HR sia a livello di gestione manageriale diretta. Però quando si parla di Talent Management ci sono due possibili macro-declinazioni:
- la prima identifica il talento come una condizione tipica dei singoli, in particolare di una categoria ristretta di singoli, spesso identificata con il codice “High potential”. Solo a questa minoranza verranno destinate attività specifiche che favoriscono la trasformazione del potenziale in performance
- la seconda integra la prima e la trascende. In questo caso il talento è una condizione più collettiva che individuale. Proprio per questo si deve agire per sviluppare i talenti della maggioranza dei lavoratori, con ovvio realismo nella considerazione dei processi produttivi realmente presenti in azienda
Da diversi anni si assume che la seconda macro-declinazione sia quella consigliabile, in particolare in aziende complesse e di grande dimensione. È una impostazione che permette anche di creare progetti ad hoc rivolti ad high potential ma che riesce a coltivare engagement diffuso e a creare e mantenere le basi anche per un buon employer branding.
Le condizioni che dovrebbero essere coltivate, pur nelle diverse declinazioni legati alle diverse famiglie professionali, sono le seguenti:
Le persone sono uniche, hanno talenti e debolezze, desideri e timori. Nel lavoro ricercano non solo la possibilità di mantenersi ma anche e soprattutto la possibilità di dar senso alla propria esistenza tramite i rapporti interpersonali e il senso di soddisfazione per l’attività svolta. Quando queste condizioni non si presentano e la maggior parte dei lavoratori presenta disaffezione e disagio, il fallimento non è solo loro ma anche e soprattutto sintomo dell’insuccesso di alcune politiche aziendali.
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