Happy people do more, so listen to the people

10/06/2016
Una nuova semantica lavorativa si sta diffondendo. Soprattutto in Italia il termine smart working inizia ad essere sempre più utilizzato: si tratta dunque di un nuovo paradigma? Solo in parte; una rapida ricerca sul web ci fa notare che:
  • è di uso assolutamente marginale nei paesi di lingua anglosassone
  • è promosso soprattutto da architetti, informatici, ingegneri e giuristi; molto meno da economisti e psicologi del lavoro
  • sembra riprendere ed enfatizzare aspetti tipici dello sviluppo organizzativo partecipato, della riprogettazione degli spazi lavorativi e del distance management.
L’elemento chiave di questa semantica è la virtualizzazione dello spazio lavorativo, con grande enfasi sulla possibilità di operare anche in remoto e direttamente dagli spazi abitativi del lavoratore. La declinazione operativa si presta allora a due principali interpretazioni:
  • lavorare liberamente, con autonomia, senza vincoli di spazio e guidati da obiettivi precisi
  • il telelavoro, ossia lavorare da una postazione fissa, in remoto, generalmente presso la propria abitazione
E’ importante osservare quanto le due declinazioni sembrino quasi contraddittorie: la prima enfatizza la libertà nella gestione del proprio agire, la seconda si concentra sulla delocalizzazione della persona. Probabilmente, in Italia, la spinta principale alla diffusione deriva dalla seconda.I benefici dichiarati sembrano comunque essere interessanti. Il Politecnico di Milano (uno dei principali centri di ricerca sul fenomeno) nel 2014 affermava che l’applicazione dei principi dello smart working dovrebbero portare:
  • miglioramento del work life balance
  • miglioramento della produttività
  • incremento della motivazione
  • benessere organizzativo
  • flessibilità dell’organizzazione
  • fidelizzazione dei talenti all’azienda.
Alcuni dichiarano che per poter sostenere e sviluppare delle politiche gestionali focalizzate sullo smart working serva una nuova normativa specifica, coerentemente con una visione attenta alla dimensione giuslavoristica. Altri enfatizzano l’importanza di un’attenta equilibratura tra cultura aziendale, organizzazione e tecnologia.Il rischio è che direzioni aziendali, consulenti e dipartimenti HR interpretino questo approccio come una nuova modalità per fare le solite cose: aumentare l’efficienza e ridurre i costi, senza sostanzialmente cambiare il grado di empowerment del personale. Procedendo in questo modo si perderebbe un’occasione di innovazione culturale e valorizzazione delle potenzialità dei professionisti che compongono l’organizzazione.Per esser certi che un’eventuale sperimentazione funzioni è necessaria allora un’ulteriore sottolineatura: lo smart working non dovrebbere essere mai inteso come un semplice progetto di cost saving basato sulla riduzione dei costi di gestione degli spazi fisici. Lo smart working  può certo portare notevoli vantaggi, compresa la riduzione dei tempi dedicati al trasferimento nei luoghi di lavoro, ma non dimentichiamo che per molti l’ambiente di lavoro fisico è anche un ambito di socializzazione e che in quanto tale andrebbe, almeno in parte, conservato.Affinchè un progetto di smart working possa davvero funzionare ed essere portatore di benefici è necessario porre le persone al centro del cambiamento, offrendo loro la possibilità di esprimersi e contribuire alla progettazione della nuova organizzazione. Probabilmente ne deriverebbe una strategia a più livelli:
  • l’impostazione di un processo di riorganizzazione di tipo collaborativo, basato su strumenti chiari
  • uno stile manageriale orientato al supporto consapevole e non al semplice controllo dei processi produttivi.
Non si tratta semplicemente di fornire a tutti i dipendenti un pc portatile e di passare al cloud. Ciò che dovremmo domandarci è invece “Come possiamo aiutarli a sentirsi più liberi e in grado di lavorare con maggiore soddisfazione?”.AlessandroReatiAlessandro ReatiPractice Business LeaderCegos Italia